21/06/07

Stormy Six - L'apprendista (1977)


Buon lavoro

Ogni mattina l'orchestra radiofonica
se la spassa e ti dà di gomito.
La tromba strepita un ritornello magico,
mentre i violini salutano.
La folla scatta, sorpassa gli orologi,
lascia partire le raffiche
dei suoi passetti precisi in bianco e nero
che si sgranano sotto i semafori.

"Buon lavoro!", il cielo è nero, il giorno nasce in città
"Buon lavoro!", cantano i muri, ognuno avrà quel che dà.

Lungo la fabbrica continua lo spettacolo
dei giorni che si rincorrono.
In sei nel cerchio galoppano per mordere
la coda della domenica.
Hanno le orbite quadrate come scatole,
quando non li vedi ti guardano;
Hanno tre bocche e trentatrè nastri magnetici.

"Buon lavoro!", il cielo è nero, il giorno nasce in città
"Buon lavoro!", cantano i muri, ognuno avrà quel che dà.

Quando sui viali la pioggia resta sola,
la luce dell'ora elettrica
misura il sonno di piombo della gente
che vende la vita per vivere.

"Buon lavoro!", il cielo è nero, il giorno nasce in città
"Buon lavoro!", cantano i muri, ognuno avrà quel che dà.

L'apprendista

Nell'anno della truffa
sotto una stella grava,
veniva al mondo urlando
come se fosse il primo
e invece risultava
dai timbri e dalle carte
l'ultimo della lista,
non l'uomo, l'apprendista.
Le scarpe belle lustre,
la giacca ereditata
e dentro la cartella
il pane e la frittata.
Compiuti tredici anni,
svezzato e vaccinato,
entrava nella pista,
non l'uomo, l'apprendista.
E corri, corri, corri,
è subito arrivato,
lavora il ferro al tornio
in un seminterrato,
così si chiude il cerchio
ti mettono il coperchio,
la vita l'ha già vista,
non l'uomo, l'apprendista.

Piazza, bella piazza,
passa la lepre pazza
se l'indice l'avete
i polli ce li ammazza
i mignoli col medio
si aggiustano il colletto
gli gridano "teppista!"
all'uomo e all'apprendista.
Carmine

Carmine,
lui faceva il barbiere,
il muratore, il contrabbandiere.
Lunedì era senza lavoro,
venerdì steso sotto una gru,
La domenica con un mazzo di rose all'angolo.
Carmine lui sapeva cantare,
per un po' si faceva pregare.
Quando poi la chitarra attaccava,
lui si volta a prendere il la,
poi cantava e di nuovo
noi eravamo un popolo.
Carmine inventava parole,
lucide come trottole al sole.
Quando tu non riuscivi a capire,
lui ti portava a bere un caffè,
ti spingeva, ti stuzzicava,
per farti ridere.

Parlami attraverso quel muro,
ti riconosco in mezzo al rumore,
ora che siamo insieme a lottare,
posso parlarti chiaro perchè...
mentre Carmine canta,
noi siamo ancora un popolo.

Il barbiere

Elementare misura d'igiene,
norma di disciplina,
sotto il bavaglio mi tengo le mani,
cerco la cartolina,
mentre il barbiere,
baffetti e basette,
racconta quattro barzellette,
unte di brillantina.
Mentre il barbiere
ripassa il rasoio
sulla striscia di cuoio,
stringo più forte
il cavallo arroventato,
il mio cranio rasato,
moltiplicato per mille la sera
dal collo in su nella specchiera,
mezzo ghigliottinato.
"Sotto a chi tocca, il signore è servito!"
e il pennello si inzuppa.
Compiuto il rito,
io sono sparito,
militare di truppa.
In un' Italia scassata e feroce
senza più forma e senza voce,
tiro su la mia zuppa.
Mentre l'Italia si gratta la scabbia,
urla in sette dialetti,
noi dividiamo il silenzio e la rabbia,
il leninismo e i fumetti.
Tutti a cantare tra il muro e le brande
quaranta merli più le mutande
dentro la stessa gabbia.

Praeter politicam, sono a Gaeta,
quattro han preso la tisi.
Cinque un rimorchio a settembre li ha uccisi,
e un sardo e un analfabeta.
Duro di testa e pesante di mano,
ha ringraziato il capitano
con due pugni precisi.
Elementare misura d'igiene,
dormire per non pensare,
solo qualcuno si taglia le vene,
gli altri sanno aspettare.
Dodici mesi tutti presenti
per ricoprirsi e stringere i denti,
capirsi senza parlare.

Cuore


Patria delle vedette,
dei tamburini sardi,
calabresini, cecchini e zoppi:
nel tuo salotto buono
c'erano troppi galantuomini,
fabbri, muratorini.
Affogarti era in fondo un gioco truccato,
lo sapevo che un giorno tornavi a galla,
ho sentito il tuo fiato sulla mia spalla
ogni volta che ho detto "proletariato".
Eravamo già pronti
io e te nel timidore,
due maestrine di penna rossa,
quando da chissà dove arriva la scossa
e noi a quattro zampe come bambini
e la testa sprizzava come una miccia
e la lingua gridava la vita dura
ma in letteratura, in letteratura
tornavamo al tuo cuore di pappa e ciccia.

Forse per noi ci vuole almeno la fame
non un brodo così, nè carne nè pesce,
masticando acqua fresca, ci riesce di rifare
il sorriso di quell'infame.

Mentre parli ai comizi più edificanti,
te lo leggo negli occhi che non sai dire
nè a te stesso nè a chi ti sta a sentire
se noi siamo gli Enrichi
e se noi siamo i Franti.

Il labirinto

D'estate, lungo l'autostrada,
sotto le tettoie che scottano,
ci fermiamo un attimo
mentre i camion vanno verso il Sud.
La campagna è un nome sotto il sole,
la campagna è la campagna, è logico,
segna il doppio limite
di questa striscia di città.
Sei come un topo nella ruota,
nel percorso profumato di plastica
dei prodotti rustici murati dentro l'Autogrill.
E sbagli strada e perdi il filo
e ti senti come uno svizzero,
ti butti nei vicoli
e ti resta in tasca un souvenir.
La palla di vetro si rovescia,
sul golfo di Napoli nevica,
metti un po' di musica
e fili leggero dentro il film.

Verso la terra di nessuno,
il cervello comincia a friggere,
la tua lingua zoppica,
non ti ricordi più chi sei.
E sbagli strada e perdi il filo,
ti ritrovi a urlare "Geronimo!"
dentro al campo profughi
acchiappacitrulli Kinderheim.

D'estate, lungo l'autostrada,
siamo soli e siamo un esercito.
Seduti allo svincolo,
ognuno in petto la sua star,
sopravvissuti alle stagioni,
ogni anno sempre più giovani,
forse non ci siamo più,
forse non ci siamo stati mai.

Rosso

Guarda sull'Unità
stanotte è morto Mao Tse Tung
e io mi sento scricchiolare
dento il mio nome e la mia età.
Anni non so per te
che un clacson secco dietro un tram
era una truppa dell'apocalisse,
un segnale di pietà.
Anni di polizia,
pesate di macelleria,
le sentivamo dure sulla testa,
libertà e democrazia.
C'era la gioventù
sul marciapiede a marcia in giù,
sotto una pioggia fitta, sassaiola
i tamburi, la tribù...
Anni erano miei
e ne ha vissuti la metà
tanto che non so più se sto parlando
o se parla la città.
Ma qui nella città
che non nè tua nè mia
nemmeno un posto
ma una foto sporta
senza la didascalia.
Cerco la tua allegria,
onore della compagnia,
con la canzone che non ti consola
senza ritmo nè armonia.

L'orchesta dei fischietti

Quando meno te lo aspetti
è scoppiata la realtà,
è l'orchestra dei fischietti
che dà la sveglia alla città,
dà la sveglia coi tamburi
e nessuno dormirà,
scrive in rosso sopra i muri
e spacca il mondo in due metà.

Non è un coro di cherubini sul tapis roulant
salta e fischia con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno
Non è un coro di cherubini sul tapis roulant
salta e fischia con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno

Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.

(voci confuse delle strofe precedenti)




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